L’impiego a tempo pieno di lavoratori assunti e retribuiti con contratto part-time integra l’ipotesi di reato di sfruttamento del lavoro di cui all’articolo 603 bis c.p.: è il principio stabilito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 24 giugno 2022, n. 24388.
É un caso che farà discutere datori e consulenti del lavoro quello affrontato recentemente dalla IV Sezione Penale della Corte di Cassazione. Il caso riguarda il legale rappresentante e l’amministratore di fatto di una azienda colpiti da un provvedimento di sequestro preventivo per una somma di oltre 180.000 euro per avere imposto ai dipendenti part-time di lavorare a tempo pieno senza adeguare la loro retribuzione.
La Cassazione ha ribadito le condizioni che realizzano il reato di sfruttamento del lavoro e intermediazione illecita di manodopera punito dall’art 603 bis del codice penale e tra queste ha inserito il caso della stipula di contratti a tempo parziale che nascondono invece una attività lavorativa a tempo pieno.
Andiamo con ordine.
Caporalato: intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
La fattispecie di reato di cui all’art. 603-bis c.p. rubricata “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, a seguito della legge n. 199/16, ha visto un ampliamento della platea dei soggetti attivi del reato con l’estensione della punibilità non solo al “caporale”, ma anche al datore di lavoro.
L’art 603 bis del codice penale prevede che: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:
1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;
2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;
3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.
Il Caso
Il caso, come anticipato, trae origine dal sequestro preventivo disposto dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Lamezia Terme nei confronti del legale rappresentante e dell’amministratore di fatto di una società, entrambi gravemente indiziati del reato di sfruttamento del lavoro.
Il Tribunale del riesame aveva confermato la ricostruzione dei fatti operata dal Giudice delle indagini preliminari secondo cui gli indagati si procurarono un ingiusto profitto rappresentato dalle retribuzioni non corrisposte, quantificate in euro 186.512,30, soffermandosi sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori.
Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame proponeva ricorso per cassazione il datore di lavoro dei dipendenti in danno delle quali era ipotizzato il reato di sfruttamento del lavoro.
Le conclusioni della Corte di Cassazione.
I Giudici di Piazza Cavour premettono che il delitto di sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603 bis del codice penale “è un reato istantaneo con effetti permanenti il cui perfezionamento si realizza anche attraverso l’impiego o l’utilizzazione della manodopera in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno”.
Pertanto, la lesione del bene giuridico protetto dalla norma permane finché perdura la condizione di sfruttamento e approfittamento; a far data dal 4 novembre 2016, data di modifica dell’art. 603 bis c.p. il datore di lavoro che assuma, impieghi o utilizzi manodopera nella ricorrenza dei presupposti descritti nel comma 1, n. 2) della citata norma, deve rispondere del reato di sfruttamento di manodopera.
L’ordinanza del Tribunale, secondo la Corte di Cassazione, aveva posto in evidenza come tutti i lavoratori, dalla loro assunzione, fossero stati resi edotti della circostanza per cui avrebbero dovuto lavorare per un numero di ore superiore a quello previsto nella contrattazione collettiva; dal giugno 2018 i dipendenti subirono una modifica unilaterale del contratto di lavoro, passando da un contratto subordinato “full-time” ad uno “part-time”.
Tuttavia, nonostante la modifica del contratto, i dipendenti continuarono a lavorare per un numero di ore corrispondenti al contratto a tempo pieno, percependo la retribuzione prevista dal C.C.N.L. relativa ai contratti part-time. Inoltre, ha aggiunto il Tribunale, si è accertato che i lavoratori non usufruivano delle ferie, della riduzione dell’orario lavoro, dei giorni di assenza e permesso previsti dalla contrattazione collettiva, lavorando sostanzialmente tutti i giorni, per un numero di ore pari a 48 ore settimanali in alta stagione.
Tali risultanze venivano desunte dalle dichiarazioni rese dai lavoratori in fase di accesso ispettivo e dal raffronto tra i turni di lavoro e i documenti contabili elaborati dall’impresa.
Quanto al requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno, il Tribunale, nell’analizzare le singole posizioni dei dipendenti, ha inteso condividere le argomentazioni offerte dal giudice della cautela nella ordinanza impositiva della misura, in cui si pone in evidenza come le dipendenti si siano viste costrette ad accettare le condizioni imposte per la necessità di mantenere un’occupazione, non esistendo, nel contesto in cui è maturata la vicenda, possibili reali alternative di lavoro.
La decisione conferma così il consolidato orientamento giurisprudenza secondo cui “ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose” (Cassazione Penale, Sez. IV, n. 24441 del 16/03/2021).
In tal senso, il reato può configurarsi non solo all’atto dell’assunzione dei lavoratori in condizioni di sfruttamento, ma anche durante la gestione del rapporto di lavoro.
Con queste motivazioni, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso e confermato il provvedimento di sequestro.
L'impatto del caporalato sui professionisti e sulla società: tra concorso del professionista nel reato del datore di lavoro e responsabilità 231/01.
Il caso ha avuto un impatto mediatico ampio e sarà interessante approfondire le decisioni dei prossimi Giudici circa il merito della responsabilità delle persone fisiche.
Le plurime decisioni della Suprema Corte in materia di diritto penale del lavoro dimostrano ormai un’importante utilizzo dell’art. 603-bis, Codice Penale, a tutela dei lavoratori e degli assetti aziendali.
La condotta illecita del datore di lavoro può coinvolgere, infatti, anche quella di altri professionisti, quali consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati del lavoro, i quali in presenza di tutti gli indici sintomatici, potrebbero rispondere del reato a titolo di concorso insieme al datore di lavoro, come già chiarito più volte dai Giudici di Piazza Cavour.
Ma a finire sul banco degli imputati potrebbe finisce anche la società che ha tratto un interesse o vantaggio dalla condotta illecita del datore di lavoro.
Si ricorda infatti che tale reato è incluso nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ex D.lgs. 231/2001.
Da qui l’esigenza delle imprese di adottare Modelli organizzativi atti a prevenire la realizzazione del reato di caporalato attraverso l’implementazione di efficaci presidi preventivi.